lunedì 7 novembre 2011

Bruce Lipton: il nuovo Copernico della genetica (seconda parte)



Nella precedente puntata avevo accennato all' epigenetica, la nuova scienza che va oltre la genetica classica, e che affronta quegli aspetti che non erano stati indagati, o che non trovavano risposta

all' interno del paradigma classico.

L' idea che un gene, non trovando di meglio da fare per passare il tempo, decida un giorno, di punto in bianco, di dar luogo ad una mutazione mi ha sempre fatto sorridere.

Come pure credere che gli ostacoli della nostra vita che ci impediscono di vivere serenamente e di realizzare le nostre potenzialità siano dovuti ai capricci di qualche gene in vena di sadismo.

Possibile che le nostre scelte, i nostri stili di vita, insomma tutto ciò che facciamo da che veniamo al mondo, giorno per giorno, istante per istante, contino poco o niente per i genetisti?

Ma allora questo benedetto libero arbitrio, se ce l' abbiamo, a che ci serve?

Bruce Lipton, l' illustre e singolare biologo di evidenti richiami "new age", ci dice chiaro e tondo che la vita non è un gioco a dadi, e che possiamo cambiare le cose in barba al nostro corredo genetico.

 E così, se vogliamo credere che il caso non esiste, è bene rivolgere allora la nostra attenzione all' epigenetica, appunto, dalla cui prospettiva emerge una visione rivoluzionaria su ciò che determina ciò che siamo.

Questa giovane scienza, di cui però il grande pubblico è ancora tenuto all' oscuro, si occupa infatti di tutti quei fattori (enzimi, ormoni e quant'altro, che nell' insieme vengono definiti "rete epigenetica") che in qualche modo vengono a contatto coi geni, e che quindi hanno il potere di interferire con essi e di controllarli.

Essi provengono evidentemente dal citoplasma, il compartimento cellulare che circonda il nucleo, dove è situato il materiale genetico, e indirettamente dall' ambiente extracellulare, essendo prodotti da tutti quegli stimoli che agiscono all' interno e dall' esterno di un organismo.

Quindi ancora una volta dobbiamo chiamare in causa ciò che introduciamo nel nostro organismo sotto forma di alimenti, bevande, droghe, farmaci, come pure  pensieri ed emozioni.

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Bruce H. Lipton


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Avevo anche precisato che i risultati del Progetto Genoma non avevano confermato le aspettative degli scienziati che lo avevano avallato e realizzato, e che le conoscenze acquisite erano ben lontane dal potersi tradurre in applicazioni concrete.

Essi dovettero infatti rendersi conto che le loro conoscenze che presumevano di avere nei confronti del comportamento dei geni erano ingenue congetture.

In base al dogma centrale, infatti, si riteneva che ogni carattere fosse determinato da un gene specifico, e che quindi negli organismi più evoluti e complessi, ad un maggior numero di caratteri dovesse corrispondere un maggior numero di geni.

Così, quando scoprirono che i geni umani sono all' incirca trentamila soltanto, invece degli oltre centomila che si aspettavano di trovare, si resero conto che qualcosa non tornava.

Oltretutto questo numero era pressapoco uguale a quello dei geni di uno scimpanzè o di un topo, e di poco superiore nel caso di un moscerino o di un verme, animali, questi ultimi, filogeneticamente molto lontani da noi umani, e quindi molto meno evoluti.

Quindi risulta evidente che non è la quantità che determina la complessità di un organismo. Ma per capirlo dobbiamo far luce sulla natura del gene.



Un gene non è che una specifica sequenza di basi nucleotidiche ( le unità elementari, i "mattoni" di cui è costituito il DNA, analogamente agli aminoacidi per le proteine) in cui si individua  l' informazione in codice per la sintesi di una delle molte migliaia di proteine, che sono i materiali di base di ogni cellula.

Esso però ha ben poco in comune con l' idea saldamente insediatasi nell' immaginario collettivo, diretta conseguenza del tipo di informazione da sempre fornita dalle fonti ufficiali attraverso i media, che ne danno una versione molto semplificata e quindi più adatta ad una divulgazione di massa.

Negli organismi evoluti il tratto di DNA che corrisponde al gene, infatti, non si trova in sequenza continua, bensì frammentato in tanti pezzi che si alternano ad altri tratti che invece non codificano niente (si reputa che la percentuale di DNA attivo, e cioè codificante, si aggiri solo sul 2% di quello totale).

Al momento della trascrizione, quando cioè l' informazione contenuta nel DNA viene letta e trasferita ad altre strutture per la sintesi di una proteina, è il modo in cui vengono assemblati i vari pezzi che compongono il gene, ossia la particolare combinazione che ne deriva, a determinare la proteina che verrà prodotta, e quindi la funzione e il carattere corrispondente.

Questo significa, come è facile capire, che ad un gene possono corrispondere diversi caratteri; non solo, ma che un dato carattere può essere controllato da più geni.

Bisognerebbe dunque abbandonare l' idea classica di gene inteso come struttura molecolare rigidamente definita e che agisce con meccanismo automatico, e pensare ad esso piuttosto come a un' entità funzionale e dinamica.

Il gene, in sostanza, va concepito come la modalità in cui specifiche sequenze nucleotidiche  si organizzano per rispondere a determinati stimoli ambientali.

Questa modalità, però, è qualcosa di ascrivibile alla rete epigenetica, e non  una proprietà intrinseca del DNA.

Ciò implica che il gene in sè non è sufficiente a determinare un risultato, come il determinismo genetico ci ha indotti a credere: esso sarà invece sempre il prodotto dell' interazione dell' ambiente, mediata dalla rete epigenetica, col genoma, compresa quella parte di DNA apparentemente inutile, in quanto non codificante, che invece avrebbe una funzione di regolazione.

Insomma, per esemplificare meglio la funzione della rete epigenetica, possiamo paragonare il genoma ad un mazzo di chiavi, ognuna delle quali è specifica per una data serratura: è ovvio che per poter aprire determinate serrature è fondamentale avere a disposizione il giusto mazzo di chiavi, ma è altrettanto vero che per poterle aprire bisognerà pure che ci sia qualcuno (la componente epigenetica, appunto) che decida di farlo, e che sappia quali chiavi usare.

Come vedete siamo molto lontani da quelle premesse semplicistiche su cui hanno sempre fatto leva l' industria biotecnologica e quella farmaceutica per giustificare la loro politica e il loro operato.

In quest' ottica risulta in tutta la sua evidenza il rischio insito nei vari esperimenti di ingegneria genetica, cosa che si evince facilmente, date le complicate e spesso misteriose relazioni che i geni hanno fra di loro e la loro polivalenza nei confronti degli stimoli ambientali.

E a tale proposito mi viene automatica l' analogia tra i manipolatori di geni e Topolino apprendista stregone, che, nel celebre cartone animato omonimo, di sua iniziativa si avventura in esperimenti di magia all' insaputa del suo maestro, finendo col combinare guai cui non è in grado di rimediare.



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Michele Nardella

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